Le colombe capitoline

Le colombe capitoline
Colombe capitoline e Colombe di Plinio furono le denominazioni assegnate fin dalla seconda metà del Settecento al quadro in mosaico (cm 85 x cm 98) di epoca romana rinvenuto nel 1737 nella Villa Adriana presso Tivoli. Autore della scoperta era stato il bergamasco Giuseppe Alessandro Furietti (1685-1764), alto prelato della curia pontificia e poi cardinale dal 1752.  Dopo la scomparsa del Furietti, esattamente nel 1765, il mosaico fu fatto acquistare dal papa Clemente XIII per essere destinato alle collezioni del Campidoglio – da cui il titolo di colombe capitoline- dove ancora si può ammirare[1]

La denominazione colombe di Plinio derivò dal fatto che il soggetto musivo corrispondeva alla lettera a quello descritto da Plinio il Vecchio (23 ca- 79 d.C ) come opera di Sosos, artista di Pergamo del II secolo a.C. ( Naturalis Historia, Lib. XXXVI,184):

Mirabilis ibi columba bibens et aquam umbra capitis infuscans. Apricantur aliae scabentes sese in canthari labro (Ivi una stupenda colomba beve ed oscura l’acqua con l’ombra del capo,  mentre altre prendono il sole e si grattano sul bordo di un cantaro).

Il mosaico di cui parla Plinio era stato  ideato per ornare il centro di una decorazione musiva pavimentale (emblema). Per la sua notevole qualità l’esemplare scoperto a villa Adriana fu ritenuto essere l’opera di Sosos. Soltanto più tardi sarà riconosciuto come una copia romana dell’originale pergameno e ne sarà spostata la datazione al II secolo d. C.

Il Furietti affiancò agli studi giuridici, filosofici e teologici quelli delle discipline storiche e archeologiche e dedicò molte delle sue indagini all’arte musiva. Nel 1752 pubblicò l’opera De Musivis, un testo in cui affrontava in maniera sistematica la storia del mosaico dall’età antica a quella moderna. E’ in questo scritto che dedica un’ampia pagina al mosaico delle Colombe esaltandone l’esecuzione eccellente, la resa prospettica e la minuzia delle tessere tanto piccole da potersene contare 160 in una sola oncia (circa 5 centimetri quadrati).

        Il ritrovamento a Villa Adriana, gli studi del Furietti e infine l’acquisto da parte del papa per le collezioni capitoline assicurarono al mosaico antico una fama internazionale. Da questa notorietà seppe trarre frutto la tecnica del mosaico minuto che proprio negli anni Sessanta del Settecento faceva i suoi primi passi. Presso il British Museum di Londra si conserva un micromosaico con le Colombe firmato Giacomo Raffaelli e datato 1779 [2].Nel 1792 il diplomatico francese Hugo de Bassville scriveva, che a Roma per una copia in mosaico delle Colombe, si pagavano fino a tremila lire della moneta francese [3]

        E il tema continuò a godere di ampia fortuna per tutto l’Ottocento divenendo una sorta di icona distintiva del mosaico minuto. Nell’interpretarlo gli artisti dapprima si mantennero fedeli alla cromìa originale, tutta accordata su toni ocracei, poi se ne allontanarono inserendo nella tavolozza una serie di tonalità fredde scelte nella gamma dei blu.

        Il soggetto fu realizzato in diversi formati ed impiegato sia nel settore del gioiello che in quello dell’arredo.


[1]M.G. Branchetti, 2006, p. 86-87.

[2] J. Rudoe, Mosaico in piccolo:Craftsmanship and Virtuosity in Miniature Mosaics, in J. Hanisee Gabriel, The Gilbert Collection. Micromosaics, 2000, p. 32.

[3] L. Hautecoeur, I mosaicisti sampietrini del ‘700, in “L’Arte”, XIII, 1910,pp. 450-460, p. 458

Vascello di Eros

micromosaico in smalti filati
diametro mm. 65
ultimo quarto XVIII secolo
Collezione privata

Un vascello dorato armato con le insegne di Eros: l’arco come albero, la faretra come timone, frecce per i remi e a prua una corona di rose, fiori sacri a Venere.

Una metafora che ha origini antiche e presente nella letteratura di ogni tempo. In età neoclassica e poi ancora nella prima metà dell’Ottocento il dio dell’Amore offre numerosi motivi iconografici al micromosaico. I modelli provengono dalle gemme antiche e in particolare, ma non solo, dalle pitture restituite dagli scavi di Ercolano e Pompei. Tra i poeti classici è Anacreonte (VI-V sec. A C.) a fornire immagini miti e delicate. Lo studio delle tematiche anacreontiche generò un sodalizio tra lo scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844) e il poeta reatino Angelo Maria Ricci (1776- 1850). A questo comune interesse si deve far risalire il bassorilievo thorvaldsiano raffigurante Amore navigatore realizzato nel 1831, molto vicino come spirito al motivo del micromosaico qui presentato[1].

Il vascello di Eros come metafora di evasione dalla realtà nella letteratura italiana ha un grande interprete nel Dante poeta di rime ispirate all’amore.  
  

Guido, I’ vorrei

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in unvaselch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,


sì che fortunaod altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ‘l disio.


monna Vanna e monna Lagia poi
Con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:


e quivi ragionarsempre d’amore,
e ciascuno di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.




[1]Berthel Thorvaldsen. 1770. 1844 scultore danese a Roma, Roma, catalogo della mostra a cura di E. di Majo, B. Jornaes, S. susinno (Galleria Naz. D’Arte Moderna, 31 ottobre 1989-28 gennaio 1990), Roma 1998, p.202.

Bozzetto per un piano di tavolo
,
Copia dal mosaico del III secolo d.C. proveniente dalle Terme della città romana di Otricoli e oggi nella Sala Rotonda dei Musei Vaticani. Stampa acquerellata diam. cm.24 collez. privata

Copia dal mosaico del III secolo d.C. proveniente dalle Terme della città romana di Otricoli e oggi nella Sala Rotonda dei Musei Vaticani.

Stampa acquerellata
diam. cm.24
collez. privata


La stampa fa parte del volume del Barberi Alcuni musaici usciti dallo studio del Cav. Michel’Angelo Barberi (Roma 1856) e riproduce il mosaico del III secolo d.C. rinvenuto nel 1780 nella città romana di Otricoli, situata sulle sponde del Tevere a circa 70 Km a Nord di Roma lungo il percorso della via Flaminia. Il mosaico costituiva il pavimento della sala maggiore di forma ottagonale delle Terme della città.

Dopo il ritrovamento fu trasportato a Roma e restaurato per essere reimpiegato nella cosiddetta Sala Rotonda dei Musei Vaticani (diametro 12 metri).

Il restauro , diretto dallo scultore e mosaicista Giovacchino Falcioni, comportò reintegrazioni di diversa entità. Le maggiori furono la Testa di Medusa al centro –eseguita da Andrea Volpini- e il Festone di frutti in posizione mediana – realizzato da Cesare Aguatti.

Temi figurati. Superficie scandita geometricamente, dal centro procedendo verso l’esterno: Testa di Medusa (moderna), Combattimenti tra guerrieri Greci e Centauri , Festone di frutti (moderno), Tritoni e Nereidi.

Il Barberi si ispirò all’antico mosaico per la realizzazione di un pavimento e di un piano di tavolo destinati allo Zar Nicola I. Le due opere furono eseguite da artisti russi e sono oggi conservate presso il museo dell’Ermitage di San Pietroburgo.


Venditrice Amorini
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Il soggetto, noto come la Venditrice di amorini,  è tratto da un affresco rinvenuto a Stabia nel  1759 e oggi conservato presso il Museo Archeologico di Napoli.  La composizione comprende più personaggi ed ha come tema centrale  una curiosa vendita di amorini alati da parte di una mercantessa: gli amorini sono contenuti in una gabbia come dei volatili. La mercantessa ne  solleva uno tenendolo fermo per le ali e lo  mostra a due donne evidentemente interessate alla singolare merce.
Delle due donne una è seduta e l’altra è in piedi alle spalle della prima. Riguardo agli amorini, oltre a quello sollevato in aria  la scena ne contiene altri due: uno seduto sul fondo della gabbia e l’altro accanto alla donna seduta.
Secondo un’ interpretazione del soggetto che si legge nell’opera dell’incisore romano Tommaso Pirolivenditrice amorini incisione 

dedicata alle antiche pitture di Ercolano (Le antichità di Ercolano, II,1789, tav. 38 ) la mercantessa potrebbe essere Penia, ossia la povertà madre di Amore, la matrona seduta Venere e la giovane consigliera Pito, dea della Persuasione. I tre amorini rappresenterebbero invece i tre stati del sentimento amoroso: l’appetito (quello ancora in gabbia), il desiderio (quello esposto), il possesso (quello accanto a Venere).
Ma al di là di ogni interpretazione intellettualistica  la scena appartiene di fatto al genere del dilettevole.
Tra le pitture rinvenute a metà Settecento negli scavi promossi da Carlo III di Borbone, l’affresco della Venditrice di amorini  divenne subito famoso ed entrò molto precocemente nel campo delle arti decorative ( González-Palacios,  1980, II, p. 134 ). Già nel 1763 il pittore francese Joseph -Marie Vie, ne traeva una copia pittorica, con alcune licenze rispetto all’originale ( Marchand d’ Amours,  Musée National du Château di  Fontainebleau).
A divulgarne la scoperta  furono soprattutto le incisioni a stampa.  La prima  comparve nel terzo volume de Le Antichità di Ercolano esposte (1762), edito dalla reale Accademia ercolanese (otto volumi in folio cm.52 x 38 , Napoli 1755-1792).
A questa seguirono quelle pubblicate nelle edizioni “economiche” che videro la luce in Inghilterra (1773), Germania(1778), Francia (1780), Italia (1789). L’edizione italiana è quella del già menzionato Piroli ( sei volumi , i primi cinque editi tra il 1789 e il 1794, il sesto nel 1807).
Nel micromosaico che qui si presenta il soggetto rispecchia abbastanza fedelmente l’originale.
E’ noto un altro micromosaico raffigurante lo stesso tema firmato dal celebre  mosaicista Clemente Ciuli (Grieco ,2008,p. 107).


rif. BIBLIOGRAFIA per gli autori citati nel testo

Un souvenir datato 1855
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Placca in Nero del Belgio con micromosaico raffigurante le Colombe capitoline
cm. 15 x 10 circa
collezione privata


La composizione in micromosaico è inserita a mo’ di intarsio al centro di una base marmorea dal contorno sagomato. Sebbene incorniciata per essere utilizzata come ornamento da parete, la placca presenta le caratteristiche tipiche delle creazioni destinate alla funzione di presse-papiers. Sul retro conserva incollata una targa con una nota scritta nel 1855 dal primo proprietario.


L’iscrizione è la seguente:

Mosaïque. Colombes du Vatican. Souvenir rapporté de Rome en 1855 et a moi donné par ma nièce en Son nom et en celui de Son Mari Colonel du 96me Régiment de ligne, (ancien 21 eme legion). Versailles 22 Juillet 1855. M(ar)quis R de Sainte Cro(?) …les..

(Mosaico. Colombe del Vaticano. Ricordo riportato da Roma nel 1855 e a me donato da mia nipote e da suo marito Colonnello del 96mo Reggimento di linea (antica 21ma legione). Versailles 22 luglio 1855. Marchese R. di Santa Croce (…).

La firma presenta qualche problematicità di tipo ortografico e sembra seguita da una parola tronca. Tuttavia il riferimento all’ambiente militare e l’indicazione della residenza a Versailles permettono di risalire con buone probabilità al marchese Robert d’Escorches de Sainte Croix (Robert, Jean, Antoine, Omer d’Escorches de Sainte-Croix, 1785-1861), esponente di una delle più antiche famiglie nobili di Francia. Dopo aver intrapreso la carriera militare e combattuto con Napoleone nella campagna di Russia (dove perse una gamba) il d’Escorches si dedicò alla vita pubblica ottenendo successi e riconoscimenti. Nel secondo Impero, sotto Napoleone III, rivestì incarichi politici.

La data 1855 riportata nell’iscrizione costituisce un preciso riferimento cronologico – senza escludere un possibile ma limitato scarto a ritroso-  per la fattura dell’oggetto.

Da notare che il soggetto è indicato con il titolo di Colombe del Vaticano e non con quello storico di Colombe Capitoline, o di Plinio. Piuttosto che ad una inesattezza, la denominazione sembra  potersi attribuire all’idea diffusa nella cultura ottocentesca di una Roma sede,  grazie alla politica culturale del papato, di una vera e propria industria artistica con centro nello Studio del mosaico, lo stabilimento  creato nel 1727 per decorare la basilica di S. Pietro ma attivo anche sul mercato cittadino con prodotti destinati alla vendita.

La produzione di presse- papiers in Nero del Belgio con intarsi in micromosaico fu particolarmente coltivata dagli artisti romani e rappresentò un genere di souvenir che conobbe ampia fortuna fino alla fine del secolo XIX. Un esemplare simile a quello qui esaminato è pubblicato in D. Petochi, M. Alfieri, M.G. Branchetti, 1981, p. 227 n. 39.